LA RAI COLPEVOLE DELLA DEQUALIFICAZIONE DEL LAVORO EDITORIALE

Le dichiarazioni del direttore di Raiuno in Commissione di Vigilanza Rai ci offrono l’opportunità di condividere alcune riflessioni con le lavoratrici ed i lavoratori. Nell’audizione di Stefano Coletta è emerso il tema cruciale del Servizio Pubblico, ovvero chi sia veramente l’Editore RAI, chi lavora sul prodotto televisivo.

“Si è persa un’attenzione alla riqualificazione di chi lavora nel prodotto televisivo, che è assolutamente distante dal lavoro giornalistico puro. Il prodotto televisivo si nutre di altri elementi, si nutre di formazione, di conoscenza musicale, di codice culturale, si nutre di scrittura”.

Questa attenzione persa sarebbe la scelta della Rai di privilegiare nella programmazione gli ambiti di informazione (infotainement, inchieste, rubriche) a scapito del genere specifico dell’intrattenimento (varietà, show, fiction, game), mancando di formare professionisti “ad hoc”. Rileviamo che questa tendenza non è un problema soltanto di oggi ma ha origini e cause diverse ed articolate. Proviamo a fare una sintesi delle questioni in gioco:

  1. Il flusso enorme di soldi verso le società di produzione esterne. Da decenni, gran parte delle risorse delle reti e dei canali viene dirottato all’esterno della Rai, privilegiando l’appalto di contenuti e risorse. Questo è un fenomeno che distorce ogni equilibrio. Non c’è più osmosi fra professionalità interne ed esterne. Si è completamente abdicato a presidiare il segmento più redditizio della programmazione, consegnandolo ad un ristretto numero di soggetti che si spartiscono fette milionarie del bilancio aziendale. Intrapresa questa china, assenti da anni seri piani industriali ed editoriali, invertire la tendenza è molto complicato ed avrebbe la necessità di una gestione manageriale di ben altro livello.
  2. Il mancato riconoscimento del lavoro editoriale specialistico. I profili professionali del nostro contratto solo in tempi recentissimi hanno visto un timido riconoscimento delle attività specialistiche in ambito editoriale. Mentre in campo giornalistico, al collega che svolga ruoli di conduzione o prestazione accessoria specifica, si riconosce un compenso integrativo, al programmista che faccia l’autore od il regista non spetta altro che il suo stipendio. A costui viene perfino negato il riconoscimento dei diritti SIAE, incassati dall’azienda, cui il lavoratore è costretto a conferire delega. Inoltre, la totale assenza di un vero registro delle professioni, implica che il lavoratore possa essere tranquillamente dequalificato o non utilizzato al momento in cui cambino i responsabili o si modifichi il gruppo di lavoro.
  3. L’appiattimento della programmazione delle reti. Aver trapiantato nelle reti in ruoli dirigenziali un gran numero di giornalisti, molti dei quali a conoscenza del solo l’ambito produttivo dei TG, ha inibito l’attenzione verso tutti gli altri generi che restano cruciali per un palinsesto in grado di competere con la sempre più crescente concorrenza. Anche con il recente accordo sul c.d. “giusto contratto” si è inteso blindare il perimetro numerico dei colleghi giornalisti, cosa fortemente voluta anche dalla politica tutta, indebolendo però complessivamente la capacità ideativa e produttiva dell’azienda. Infatti, ai programmisti quasi sempre viene inibita la partecipazione attiva al processo creativo editoriale. Restano in gran parte meri esecutori di ordini che arrivano da autori esterni, soggetti questi talvolta privi delle necessarie competenze e di gran lunga meno competenti di tanti colleghi interni.

Come rappresentanti dei lavoratori vogliamo che la Rai agisca per arrestare questi fenomeni che corrodono alla base le fondamenta del servizio pubblico multimediale. Fin da subito esigiamo la chiusura del percorso sul registro delle professioni. Il luogo dove affrontare i problemi della Rai non è la Commissione di Vigilanza, ma il confronto con le parti sociali.

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